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lunedì 5 agosto 2019

Lo specchio
Pioveva il sole quella mattina. Dopo tanti giorni invece che acqua pioveva sole. Pur così tanto atteso, Paloma non poteva goderne.
Un grande specchio le si era  improvvisamente materializzato davanti e le impediva l'uscita, uno specchio magico che la costrinse a vedere ciò che per tanto tempo aveva cercato di nascondere in ogni modo. Lo specchio ora, come un diavoletto impietoso e crudele faceva cadere tutti i veli e la costringeva a vedere la realtà vera.
Le ritornò in mente un paio di poesie scritte tanti anni prima, una ancora piena di attese e speranze e una che presagiva la realtà odierna: la caduta delle illusioni e la dispersione dei sogni nell'amarezza e nel rimpianto di non aver saputo vivere quando ancora si poteva.
Fuori intanto, oltre lo specchio, la vita degli altri, quella che lei non riusciva a vivere. Per viverla doveva affrontare lo specchio, le sue paure e le vecchie ferite.
Paloma non voleva. Voleva invece farsi gomitolo e chiudersi in una scatola.
Sedette. Nelle mani un gomitolo appena iniziato e di lato una scatola dipinta con tenui colori pastello mentre lo specchio le rimaneva di fronte fermo e incurante delle sue paure e mistificazioni.
Fuori il sole intanto continuava a piovere.
Paloma decise allora di rovesciare la situazione e affrontare lo specchio. L'avrebbe interrogato e smascherato impedendole di schiacciarla come altri avevano fatto.
- Chi sei tu per giudicarmi?
- Sono il tuo inconscio e voglio impedirti di continuare a farti del male.
Mirella P.

giovedì 27 gennaio 2011

Fazzoletti

Finalmente il tempo, lo spazio e il mondo mi appartenevano.
L’aria mi avvolgeva tutta e con una carezza mi liberava dalla cappa claustrofoba della città, dell’ufficio, dall’insidia velenosa della routine..
Avevo scelto quel fazzoletto di mondo così aperto per respirare pienamente, per guardare senza impedimenti e barriere, per sentire con tutti i sensi e pensare. Pensare e scrivere.
Andavo a letto presto, la sera, e al mattino mi svegliavo all’alba.
Mi piaceva l’alba e mi piaceva compiere quel rituale, la domenica mattina, al parcheggio della discoteca : guardare i fazzoletti di carta gettati via, buttati a terra come inutili o scomodi testimoni di un pezzo di vita .
Dedicavo una meticolosa attenzione a quei discreti, accartocciati testimoni di brevi emozioni o disagi fisici, presto spazzati via:, sbriciolati, ridotti a brandelli.
In ogni fazzoletto riuscivo a vedere uno dei tanti giovani da poco andati via: un gesto, una lacrima o un sorriso, un amore iniziato o un amore finito o una breve effimera emozione. Mi fermavo ad osservare la loro forma e tiravo ad indovinare.
Uno sguardo, un pensiero per ogni fazzoletto e nella mia testa nasceva una storia; per questo mi piaceva quella specie di rito. Mi piaceva perchè mi sembrava di rianimare quella bianca e piatta palude spenta, la fine di un giorno troppo lungo.
E intanto pensavo "Anche la mia vita è un fazzoletto stropicciato, accartocciato. Solo in questi giorni si distende un po'; è come se fra i tanti fazzoletti anonimi riconoscessi il mio . Lo raccolgo delicatamente e con cura lo stiro. Non riesco a far scomparire totalmente quelle brutte pieghe ma riesco a distenderle un po'. Come il mio viso più sereno con gli occhi appena velati di malinconia per l’assurdo rimpianto di non aver stirato bene la mia vita.
Ritornavo poi per la stradina polverosa e ripensavo ancora a quelle giovani vite prese dal consumo rapido, ossessivo e totale e mi inventavo nuove vite: erano dentro di me, erano davanti ai miei occhi e presto sarebbero state cristallizzate sulla carta.
Entravo in casa e misurando ogni gesto mi preparavo un caffè che gustavo con una brioche calda . Assaporavo la lentezza di ogni gesto, ogni sapore, ogni odore. Poi con calma uscivo sul retro della casa dove il terreno assumeva le forme morbide come un seno materno e restavo lì a guardare il vecchio albero. E il pensiero ritornava alle giovani vite, ai loro fazzoletti.
Mentre il sole ormai alto mandava bagliori di luce calda sul mio corpo assetato di calore ed asciugava l’erba bagnata di rugiada mi stendevo su un plaid ed iniziavo a scrivere.

Mirella Pieroni

Scritto durante un corso di scrittura creativa.

martedì 25 gennaio 2011

La Bimba

Stanza buia
Muoiono le parole
nella gola arida
non solo di febbre della bimba

Le lacrime cristalizzate negli occhi lucidi
che la paura taciuta spalanca come finestre
mute a chiedere aiuto

Eppure nessuno Vede
perché nulla s’Ode
e colpevoli ignari
lodano la piccola bimba
brava e giudiziosa!

Mirella Pieroni

Festa di compleanno

Un altro sei Agosto e come tutti gli altri degli anni passati da quando era nata era il suo compleanno che si riduceva spesso a una piccola festicciola domestica con la torta fatta dalla mamma e qualche bibita con i pochi bambini del vicinato.
Le scuole chiuse facevano perdere di vista le compagne di sempre e molti preferivano andare al mare in quelle calde giornate d'agosto piuttosto che festeggiare il suo compleanno.
Facendosi grande le cose non migliorarono, anzi peggiorarono e cominciò ad associare quella festa a una brutta ricorrenza: la bomba di Hiroshima.
Cosa c'era quindi da festeggiare in quel giorno: la distruzione dell'uomo per mano dell'uomo? Con questa ricorrenza in testa e le poche amiche disponibili, non festeggiò più se non in famiglia con la solita torta fatta dalla mamma che almeno era buonissima.
Quell'anno però non era come gli altri anni. Caspita, compiva diciottanni e doveva essere diverso, memorabile, legato anche al ricordo di una bella festa.
Simona aveva quindi chiesto ai genitori di organizzare la sua festa in casa, come si usava allora, invitando i suoi amici e i genitori ne furono ben lieti.
Invitare le amiche non era un problema e tra loro ne avevano già parlato ma erano tutte senza ragazzo e una festa senza ragazzi non era una bella festa!
Passeggiando con Mara esternò questa preoccupazione:
- Come si fa con i ragazzi? Abbiamo tutte rotto con i nostri ex e i ragazzi della band che frequentiamo sono fuori. Come si fa?
- Ehm sì... è un problema!
Mara rimase un attimo pensierosa e poi esclamò:
- Come ho fatto a non pensarci... conosco alcuni ragazzi che potrebbero venire. Ci penso io. Stasera ti telefono e ti faccio sapere.
Simona aveva appena finito di cenare quando Mara telefonò.
- Tutto a posto. Per la tua festa avremo i ragazzi!
- Evviva - Esclamò Simona.
Chiacchierarono un po’ e poi si salutarono.
Arrivò il giorno della festa. La mamma aveva preparato la torta e dolcetti vari. Tutto era pronto: la tavola apparecchiata con la tovaglia delle ricorrenze e Simona che per l'occasione indossava un bell'abito di raso verde, era radiosa ed eccitata.
Erano già arrivate tutte le ragazze quando giunse Mara che con espressione dispiaciuta disse:
- Simona, mi dispiace, ma quei ragazzi... ci hanno dato buca.
- Avevano assicurato che sarebbero venuti! - quasi piagnucolò Simona.
- Hanno telefonato e hanno blaterato di un impegno, di un problema ... aggiunse Mara - e poi guarda ero così furibonda, che quando ho compreso che non sarebbero venuti, non ho capito nemmeno quale fosse il motivo di cui stavano parlando... chiaramente una scusa.
Simona, delusa, quasi si accasciò sul divano e con gli occhi lucidi disse quasi rivolta a se stessa:
- anche i miei diciottani senza il ricordo di una festa!
A vederla così Mara disse:
- Non ti preoccupare. Ora esco e ci penso io. Vedrai che l'avrai la tua festa!
- Ma dove vai? Non puoi mica invitare i primi sconosciuti che incontri?
- Troverò qualcuno!
- Non troverai nessuno in giro con questo caldo; sono tutti al mare!
- Stai tranquilla, ci pensò io - ripeté e uscì in fretta
Fuori, Mara non si sentì poi così sicura come aveva mostrato a Simona e alle altre ragazze. Nel quartiere, non c'era nessuno come aveva detto Simona.
Si fece tutto il viale nei due sensi e i pochi che vide non le ispirarono fiducia.
Scoraggiata, stava già tornando indietro, quando, quasi come apparsi dal nulla, vide un gruppo di ragazzi che venivano in senso inverso al suo percorso. Li osservò e le ispirarono senza una spiegazione razionale, fiducia e simpatia.
Li fermò e disse loro:
- Vedo che non avete niente da fare in questa calda domenica di agosto!
Sul volto dei ragazzi era palese un punto interrogativo.
Mara, per non perdere coraggio, continuò:
Vi andrebbe di venire a una festa?
- Una festa? - risposero in coro i ragazzi.
- Sì, una festa di compleanno!
- Ma non conosciamo nessuno! E di chi è la festa?
- La festa è di una mia amica e non è vero che non conoscete nessuno. Conoscete me. Mi chiamo Mara.
A quel punto anche i ragazzi si presentarono. Uno sguardo d'intesa passò fra loro e in coro dissero:
- Perché no? Dobbiamo, però, comprare un regalo.
- Non ce ne bisogno - rispose Mara - sarete già voi il regalo.
- E' assolutamente doveroso portare un piccolo pensiero, anche se non conosciamo questa tua amica.
Senza aggiungere altro entrarono in un bar e ne uscirono con una scatola di cioccolatini con sopra anche un piccolo peluche.
Nel frattempo le altre amiche tentavano di consolare Simona sempre più delusa.
- Dai, non te la prendere. Che ci frega dei ragazzi! Festeggiamo da sole e mangiamo di più.
Non passò molto tempo che suonò alla porta. La mamma andò ad aprire e chiamò:
- Simona vieni!! - quasi gridò la mamma.
Incredibile Mara era riuscita a trovare cinque o sei ragazzi che rivolgendosi a Simona le dissero in coro:
- AUGURIIIII! - Porgendole il piccolo regalo.

Mirella Pieroni

ROSA

Fuori il vento urlava la sua rabbia.
Sferzava gli alberi che, gemendo, ripiegavano i rami come in gesti di preghiera e protezione, spazzava le strade, sollevando polvere e vi trascinava spruzzi salati dal mare che sollevava in ondate furiose.
Percuoteva le imposte delle finestre, quasi a voler entrare con forza per spazzare via anche il tepore domestico.
Rosa era in quel tepore ma non lo sentiva.
Aveva freddo nel corpo e non solo. Folate gelide le facevano sanguinare l’anima che rifletteva dolore in ogni parte del suo corpo intirizzito.
Guardava con stupore il termometro, che segnava la temperatura interna a 22° e si stringeva sempre più addosso il vecchio maglione sdrucito come a cercare un abbraccio rassicurante. Ma non arrivava niente.
Avesse potuto anche lei urlare come il vento, la sua rabbia fino a placarsi sfinita, avesse potuto anche lei urlare tutto il suo dolore nella speranza che qualcuno o qualcosa lì fuori ne avesse pietà e lo lenisse.
Invece Rosa piangeva lacrime silenziose che nessuno vedeva, anche se ormai avevano scavato solchi bui e profondi sotto i suoi occhi.
Si passò, in un gesto abituale, la mano sotto gli occhi, si trascinò con fatica dalla camera alla cucina e iniziò a preparare la cena.
Tra poco la famiglia sarebbe un po’ alla volta rientrata e doveva affrettarsi a indossare la maschera di sempre, ricacciare la disperazione che le incupiva il volto.
Frammenti della sua vita le passavano confusamente davanti agli occhi come in un caleidoscopio ed era sempre più difficile fermarle, ordinarle, darle un senso.

Rosa, non andare fuori con la bambola, giocaci in casa – le raccomandava la mamma –sai bene che i bambini più grandi te la rompono.
Rosa però batteva i piedi per terra, metteva il broncio e stringendosi la bambola al petto, sfidava con lo sguardo la mamma che sospirando la faceva uscire, gridandole dietro:
- Poi non piangere!
Rosa, una bambola così bella con i capelli veri, che camminava e chiamava mamma voleva a mostrarla a tutti, orgogliosa come una piccola mamma. Premurosa, la sistemava nel bel passeggino e usciva correndo. I biondi capelli le ricadevano in una cascata di boccoli sulle spalle ricoperte dal vestitino di velluto rosso bordò cucito dalla mamma, con i ricami che ornavano la gonna che ondeggiava a ogni movimento. La sua bambola ne aveva uno simile perché la mamma ne cuciva sempre uno per lei e uno per la bambola.
Non passava molto tempo prima che un gruppetto di bambine più grandi le si avvicinasse. Normalmente la ignoravano: era troppo piccola, una stupida mocciosa che non poteva far parte del loro gruppo, ma con quella bambola diventava improvvisamente importante perché una bambola così in quella strada era una rarità, un vero lusso.
Poco dopo Rosa, con la bambola penzoloni fra le braccia, quasi fosse un bimbo malato, ritornava a casa piangendo a dirotto cercando consolazione fra le braccia della mamma e della nonna.
Per consolarla la rassicuravano dicendole che l’avrebbero portata all’ospedale delle bambole dove l’avrebbero curata.
L’episodio si ripete più volte e più volte la bambola andò all’ospedale delle bambole finché Rosa comprese che la bambola non poteva più uscire da casa. Di lei non si seppe più nulla.
Anche Rosa andò più volte in ospedale senza lacrime e lamenti. Ai dottori cattivi – così le avevano detto – non piacevano le bambine che frignavano. E lei, ormai era grande!
Imparò così, a ricacciare in gola lacrime e lamenti e troppo presto seppe cosa significava essere grande.


Mirella Pieroni

Ricordi "Scusi va a Urbino?"

Anche quel giorno le tre ragazze, come sempre, attendevano la coincidenza per Urbino nella casa del Capo Stazione. Prendevano, un caffè dopo il panino mangiato frettolosamente sul treno, chiacchieravano un pò e poi all'ultimo momento, scendevano di corsa le scale e arrivavano giusto in tempo al binario da dove partiva il trenino gremito di studenti.
Quel giorno l'aria era tiepida e la finestra, nella casa del Capo Stazione, era aperta e si sentivano più tranquille del solito perchè avrebbero ben sentito l'annuncio.
Erano ancora sedute, quando la moglie del Capo Stazione, volgendo il capo verso la finestra, gridò:
- il treno sta partendo!
Contemporaneamente si affacciò alla finestra e gesticolando e gridando costrinse il macchinista a fermarsi.
Il macchinista, "ammammalocuto", avrebbe detto Camilleri, si fermò guardandosi attorno.
La più giovane delle ragazze intanto, più veloce delle altre sue compagne, era scesa, aveva attraversato i binari e ferma in mezzo al pietrisco, si rivolse al macchinista e chiese:
- scusi, va ad Urbino?
Il macchinista, come fosse cosa normale, rispose:
- No, vado ad Ancona
Di rimando la ragazza, accompagnando la frase con un gesto di autorizzazione, aggiunse:
- Ah, allora può andare!

P.S. Grottesco ma fatto realmente accaduto quando andavo all'Università