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martedì 25 gennaio 2011

ROSA

Fuori il vento urlava la sua rabbia.
Sferzava gli alberi che, gemendo, ripiegavano i rami come in gesti di preghiera e protezione, spazzava le strade, sollevando polvere e vi trascinava spruzzi salati dal mare che sollevava in ondate furiose.
Percuoteva le imposte delle finestre, quasi a voler entrare con forza per spazzare via anche il tepore domestico.
Rosa era in quel tepore ma non lo sentiva.
Aveva freddo nel corpo e non solo. Folate gelide le facevano sanguinare l’anima che rifletteva dolore in ogni parte del suo corpo intirizzito.
Guardava con stupore il termometro, che segnava la temperatura interna a 22° e si stringeva sempre più addosso il vecchio maglione sdrucito come a cercare un abbraccio rassicurante. Ma non arrivava niente.
Avesse potuto anche lei urlare come il vento, la sua rabbia fino a placarsi sfinita, avesse potuto anche lei urlare tutto il suo dolore nella speranza che qualcuno o qualcosa lì fuori ne avesse pietà e lo lenisse.
Invece Rosa piangeva lacrime silenziose che nessuno vedeva, anche se ormai avevano scavato solchi bui e profondi sotto i suoi occhi.
Si passò, in un gesto abituale, la mano sotto gli occhi, si trascinò con fatica dalla camera alla cucina e iniziò a preparare la cena.
Tra poco la famiglia sarebbe un po’ alla volta rientrata e doveva affrettarsi a indossare la maschera di sempre, ricacciare la disperazione che le incupiva il volto.
Frammenti della sua vita le passavano confusamente davanti agli occhi come in un caleidoscopio ed era sempre più difficile fermarle, ordinarle, darle un senso.

Rosa, non andare fuori con la bambola, giocaci in casa – le raccomandava la mamma –sai bene che i bambini più grandi te la rompono.
Rosa però batteva i piedi per terra, metteva il broncio e stringendosi la bambola al petto, sfidava con lo sguardo la mamma che sospirando la faceva uscire, gridandole dietro:
- Poi non piangere!
Rosa, una bambola così bella con i capelli veri, che camminava e chiamava mamma voleva a mostrarla a tutti, orgogliosa come una piccola mamma. Premurosa, la sistemava nel bel passeggino e usciva correndo. I biondi capelli le ricadevano in una cascata di boccoli sulle spalle ricoperte dal vestitino di velluto rosso bordò cucito dalla mamma, con i ricami che ornavano la gonna che ondeggiava a ogni movimento. La sua bambola ne aveva uno simile perché la mamma ne cuciva sempre uno per lei e uno per la bambola.
Non passava molto tempo prima che un gruppetto di bambine più grandi le si avvicinasse. Normalmente la ignoravano: era troppo piccola, una stupida mocciosa che non poteva far parte del loro gruppo, ma con quella bambola diventava improvvisamente importante perché una bambola così in quella strada era una rarità, un vero lusso.
Poco dopo Rosa, con la bambola penzoloni fra le braccia, quasi fosse un bimbo malato, ritornava a casa piangendo a dirotto cercando consolazione fra le braccia della mamma e della nonna.
Per consolarla la rassicuravano dicendole che l’avrebbero portata all’ospedale delle bambole dove l’avrebbero curata.
L’episodio si ripete più volte e più volte la bambola andò all’ospedale delle bambole finché Rosa comprese che la bambola non poteva più uscire da casa. Di lei non si seppe più nulla.
Anche Rosa andò più volte in ospedale senza lacrime e lamenti. Ai dottori cattivi – così le avevano detto – non piacevano le bambine che frignavano. E lei, ormai era grande!
Imparò così, a ricacciare in gola lacrime e lamenti e troppo presto seppe cosa significava essere grande.


Mirella Pieroni

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